Introduzione
Da una parte il mondo del volontariato e dell’azione benefica rivolta alle comunità, dall’altra il mondo dell’impresa improntata ai guadagni, agli utili, ai dividendi: è questa la divisione classica tra sfera del non-profit e sfera del profit. Tertium non datur, parrebbe: la dicotomia “o fai utili, o aiuti gli altri” è sempre stata una linea di demarcazione imperante dell’economia, una sorta di dato di fatto incontrovertibile mai messo seriamente in discussione.
Eppure sempre più, negli ultimi anni, si sono moltiplicati i tentativi delle imprese di reclamare uno spazio diverso, ibrido, dove il profitto interno vada di pari passo con le ricadute positive all’esterno. Sono aziende innovative, che per lungimiranza o per convenienza – o, più semplicemente, per intima essenza – hanno attraversato il solco insormontabile tra profit e non-profit, reclamando il diritto di scegliere come stella polare e metro di misura delle proprie azioni non solo la massimizzazione dei guadagni, ma anche altri e più luminosi indicatori.
In questo articolo parleremo della più recente ed ambiziosa novità in questo ambito: la Società Benefit, un nuovo modello giuridico di impresa introdotto in Italia dalla legge di Stabilità 2016. Si tratta di un modello che prende spunto da esperienze internazionali e da un movimento globale, con l’obiettivo di unire l’utile (nel verso senso della parola) al dilettevole, inteso come benefici positivi arrecati a una molteplicità di soggetti diversi da quelli interessati direttamente all’azione societaria. Una sfida interessante, che guarda al futuro e prova ad allargare la valutazione dei risultati e delle performance di un’impresa a un contesto ben più vasto del diretto raggio d’azione dell’impresa stessa, spingendo avanti il concetto di azienda e ibridandolo con elementi legati al mondo del non-profit.
A cavallo di questi due mondi, chiamate a domare un destriero ancora acerbo e scalciante, da qualche tempo è cresciuto il fronte delle imprese che, pur mantenendo centrale l’obiettivo di capitalizzare utili, hanno dato pari importanza e dignità anche ad altri scopi, destinati a “fare del bene” a una comunità precisa di attori di riferimento. Un cambiamento radicale di paradigma, per molti visionario, per altri una scelta necessaria per “stare” davvero nel futuro: smettere di pubblicizzare l’impegno “civile” con l’obiettivo di migliorare (o ripulire) la propria immagine pubblica, per cominciare invece a misurare e migliorare, anno dopo anno, gli effetti della propria azione sulle persone, sulle comunità, sull’ambiente.
Un movimento globale: la certificazione: le BCorp
Organizzazioni che operano nello stesso ambito tendono a subire processi di trasformazione convergenti: si tratta di un fenomeno conosciuto come isomorfismo organizzativo (Meyer e Rowan, 1977). Col passare del tempo, in particolar modo in ambiti altamente istituzionalizzati, gli attori di ogni “campo organizzativo” (Powell e DiMaggio, 1983) tendono a mettere in campo soluzioni simili tra loro, con l’obiettivo di guadagnare vantaggi competitivi.
Negli ultimi decenni, in particolar modo nel campo delle imprese private, è andato consolidandosi sempre più lo strumento delle certificazioni, emesse da valutatori esterni e riguardanti le più svariate materie (sicurezza dei lavoratori, pratiche ambientali, qualità, …): è un fattore ormai strategico di riconoscimento e legittimazione, necessario per essere “accettati” nell’ambiente nel quale si opera (Deephouse 1996).
Parallelamente negli ultimi anni è sempre più cresciuta l’attenzione dell’opinione pubblica a tematiche di tipo sociale e ambientale: il consumatore tende a premiare le imprese “sostenibili”, capaci di orientare le proprie azioni per sviluppare inclusione, equità e sicurezza (Galdwin 1995).
È su queste due basi che nasce il movimento internazionale delle “B-Corp”, un network globale di aziende che si pongono come obiettivo di essere “le migliori per il mondo”: l’innovazione passa dall’azione stessa delle aziende, che mira non solo ai profitti ma anche alla creazione di valore condiviso per il mondo. Il movimento è strutturato attraverso l’organizzazione internazionale B-Lab che, attraverso le sue declinazioni nazionali, si occupa di certificare come “B-Corp” quelle imprese che raggiungono un elevato livello positivo di impatto su una molteplicità di soggetti esterni all’azienda. L’attività di certificazione, avviata nel 2007, è orientata a distinguere le aziende che producono realmente un beneficio comune da quelle che ne fanno solo una mera strategia di marketing (Magdaluyo 2012). Questo metro di valutazione internazionale, chiamato Benefit Impact Assessment, mira a premiare soltanto un numero limitato di società, che devono agire in accordo ai più alti standard di responsabilità sociale e ambientale e si impegnano a misurare e migliorare, nel modo più rigoroso e trasparente possibile, il loro impatto. Il metro di valutazione in uso è aggiornato a cadenza biennale ed è suddiviso in cinque principali aree di indagine: la governance aziendale; il trattamento dei dipendenti; l’impatto sulla comunità; l’impatto sull’ambiente, l’attenzione a clienti e destinatari. Le aziende in grado di superare il punteggio di 80/200 – una piccola minoranza sul totale di quelle che si sottopongono alla valutazione – ottengono la certificazione e sottoscrivono un apposito manifesto (Dichiarazione di interdipendenza).
Dalla sostanza alla forma: le Benefit Corporation
Se da un lato la certificazione BCorp rappresenta una chiara testimonianza dell’impegno societario in un ambito ben più vasto di quello meramente aziendale, dall’altro questa certificazione (da rinnovarsi a cadenza triennale) non ha alcun vincolo di tipo giuridico verso terzi né verso i soci: è un impegno “temporaneo” per l’azienda, che pur incidendo sulle prassi e sull’organizzazione, interna ed esterna, dei servizi erogati o dei beni prodotti, non rappresenta una risultato acquisiti nel lungo periodo né implica un radicale cambiamento dell’assetto societario, qualunque sia la cultura organizzativa presente. Il valore aggiunto rappresentato dalla certificazione BCorp si concretizza primariamente nella sfera legata al settore commerciale e al marketing, ma non ha ricadute a livello statutario o giuridico.
Per ovviare a questa mancanza, il movimento delle BCorp ha avviato da anni un’intensa attività di lobby che ha portato all’introduzione di forme giuridiche specifiche a tutela di queste aziende: negli Stati Uniti hanno preso il nome di Benefit Corporation, mentre la declinazione italiana è appunto quella delle Società Benefit. In linea generale, si può dire che queste aziende vedono coesistere in maniera paritetica lo scopo di lucro e lo scopo sociale o ambientale, indicando inoltre i soggetti responsabili, il campo di applicazione e l’obbligo di relazione e di valutazione dei risultati. La normativa prevede inoltre che la valutazione dei risultati sia condotta da un ente terzo, sulla base di criteri oggettivi precedentemente stabiliti.
Le principali differenze tra BCorp e Benefit Corporation
Benché sia facile confondere le due tipologie di società, bisogna tenere a mente che si tratta di due concetti che afferiscono a sfere completamente differenti: le Benefit Corporation sono delle imprese che hanno assunto un particolare modello giuridico societario, mentre le BCorp (o B Corporation) sono imprese che hanno ottenuto una certificazione attraverso un sistema privato, grazie al superamento di una determinata soglia di punteggio nel BIA. La certificazione è dunque nettamente distinta dal modello giuridico: benché numerose società abbiano entrambi i requisiti, vi sono società certificate Corp che non usufruiscono della forma giuridica della Benefit Corporation e viceversa.
A differenza della certificazione, che prevede una verifica dell’impatto sociale dell’impresa da parte di un ente certificatore, nella scelta della forma giuridica della Benefit Corporation il controllo è affidato agli stessi soci, in quanto il Consiglio di amministrazione è vincolato al raggiungimento sia degli obiettivi di conseguimento di utili, sia alle finalità di beneficio comune. L’impiego del modello giuridico non richiede alcuna certificazione da parte di B-Lab o altre organizzazione pubbliche e private, ma soltanto l’utilizzo di standard terzi per la valutazione dell’impatto della società: siccome in genere non sono previsti benefici fiscali, la spinta a intraprendere una certificazione B-Corp o la trasformazione in Benefit Corporation deriva dal potersi qualificare e fregiare di tale status e dunque migliorare l’immagine pubblica dell’azienda, con ricadute positive sulla parte commerciale dell’azione societaria. L’eventuale trasformazione in Benefit Corporation permette successivamente di vincolare il raggiungimento di determinati obiettivi di beneficio comune anche nel lungo periodo, mettendo al riparo questa mission da eventuali cambiamenti nel Consiglio di amministrazione o nella ripartizione delle quote tra i soci.
La via italiana: le Società Benefit
L’Italia è stata il primo Stato sovrano al mondo a inserire il modello delle Benefit Corporation all’interno del proprio ordinamento, inserendo integralmente il ddl “Del Barba” – presentato qualche mese prima – nei commi 376 e seguenti della Legge di Stabilità 2016, approvata a fine anno da Camera e Senato. Le disposizioni in materia di Società Benefit sono dunque entrate in vigore il 1° gennaio 2016, e già qualche giorno dopo diverse società (che erano già certificate BCorp) hanno ufficialmente inserito obiettivo di beneficio comune nel proprio statuto e modificato la propria forma societaria, diventando Società Benefit.
Il modello delle Società Benefit si richiama esplicitamente all’esperienza delle Benefit Corporation americane e del fenomeno delle BCorp: sulla scorta del successo di questo modello e della sua diffusione su scala mondiale, il legislatore ha agito per colmare il vuoto originato dalla mancanza di una forma giuridica specifica per queste imprese. Le Società Benefit (SB) uniscono, al normale scopo sociale di realizzazione prima e divisione poi degli utili, anche “una o più finalità di beneficio comune”, i cui beneficiari possono essere “persone, comunità, territori ed ambiente, beni ed attività culturali, enti e associazioni e altri portatori di interesse, e verso quali le società operano in modo “responsabile, sostenibile e trasparente”. Le fattispecie di “beneficio comune” previste riguardano “il perseguimento, nell’esercizio dell’attività economica delle società benefit, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi” e devono essere indicate specificamente nell’oggetto sociale: la gestione aziendale dovrà dunque bilanciare l’interesse dei soci con quello di coloro sui quali l’attività sociale può impattare.
Le Società Benefit sono tenute a misurare annualmente – attraverso uno standard di valutazione esterno che indaghi aspetti legati alla governance, ai lavoratori, alle comunità di riferimento e all’ambiente – i propri sforzi e i risultati di beneficio comune raggiunti e a darne comunicazione attraverso una relazione annuale, depositata insieme al bilancio societario. Lo standard utilizzato deve rispettare alcuni specifici criteri fissati dalla legge: va segnalato però come questo strumento di valutazione generale (adatto dunque a diverse tipologie di imprese) presenti diverse lacune nella valutazione specifica dell’impatto delle azioni societarie in materia di beneficio comune, che devono esser oggetto di una relazione apposita da depositare annualmente insieme al bilancio aziendale.
Tutte le tipologie di società, di persone e capitale, previste dal Codice Civile possono trasformarsi in Società Benefit ed eventualmente integrare la denominazione sociale: il controllo su eventuali illiceità nell’utilizzo della denominazione è previsto in capo all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) ed è dunque principalmente riferito a pratiche commerciali scorrette, quali pubblicità ingannevole o mancato rispetto del Codice dei Consumatori.
Elementi distintivi e particolarità delle Società Benefit
Il modello delle Società Benefit si basa sul concetto di “beneficio comune”: a differenza del termine “interesse generale”, storicamente utilizzato dal legislatore per evocare le attività solidaristiche direttamente indirizzate a terzi (Venturi 2008), la dizione adottata per la definizione dell’impatto delle SB è rivolta al “perseguimento, nell’esercizio dell’attività economica della Società Benefit, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi” nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente. Le Società Benefit non nascono dunque come strumento pubblicistico di incentivo per determinare politiche attente a valorizzare interessi generali o collettivi (di uno o di altro tipo): nascono invece, almeno nelle dichiarate intenzioni dei promotori e dei proponenti, con l’obiettivo di consentire agli imprenditori di dotarsi di modelli di esercizio di attività di impresa (Riolfo 2017) finalizzati al perseguimento tanto di scopi egoistici dei soci (shareholders) quanto di altre finalità di beneficio comune, rivolte a più larghe e differenti categorie di interessati (stakeholders).
Il fulcro della nuova istituzione e la vera innovazione introdotta in Italia dalle Società Benefit è dunque il bilanciamento tra due scopi (quello di lucro e quello di beneficio comune) che storicamente sono sempre stati contrapposti nell’immaginario economico, con un solco che – nonostante vari tentativi come le “imprese sociali”, mai davvero avviate, o le cooperative di diverso tipo, che non possono distribuire direttamente gli utili prodotti ai soci – nessuno ha mai veramente cercato di attraversare. La ricerca di un bilanciamento tra questi due scopi (non più opposti, ma complementari) costituisce certamente la sfida maggiore posta dal legislatore: la misurazione concreta dell’equilibrio tra diversi scopi e diversi destinatari (shareholders e stakeholders) presenta evidenti difficoltà pratiche e complessità di gestione.
Bisogna però segnalare che in molte Società Benefit questo possibile problema è risolto dalla coincidenza tra l’obiettivo di beneficio comune e il core business della produzione aziendale: in diverse Società Benefit esistenti l’obiettivo di beneficio comune perseguito è di fatto identico o comunque strettamente collegato alla principale attività commerciale dell’azienda stessa. L’azienda che combatte l’inquinamento nella Laguna di Venezia e al tempo stesso produce oggetti di design trasformando pezzi di relitti abbandonati, l’impresa che si impegna a favore dell’ambiente e pianta alberi per conto terzi nel Sud del mondo, il produttore di energia rinnovabile che punta a promuovere e diffondere l’utilizzo di energia “pulita”: sono solo alcuni esempi di società benefit il cui impatto positivo è generato in larga parte dalla stessa attività che genera utili, eliminando di fatto anche nella pratica la dicotomia tra scopo di lucro e interesse collettivo.
Conclusioni
In un mondo economico sempre più globale e guidato da fattori finanziari, la diffusione del modello delle Benefit Corporation testimonia la concreta potenzialità di ridisegnare i paradigmi economici dominanti, allineandoli a nuovi assetti davvero più orientati a percorsi di sostenibilità e responsabilità sociale.
In Italia la distinzione tra profit e non-profit è sempre stata dominante: i tentativi di “ibridizzare” i due modelli hanno partorito, nel nostro Paese come altrove, soluzioni che sono ancora in rampa di lancio (come le imprese sociali) o che da tempo hanno mutato forma originaria e raggio di azione (cooperative). Per questo motivo la decisione del legislatore di introdurre nel nostro ordinamento il modello delle “Società Benefit” si configura come una sfida di assoluto rilievo lanciata all’intero mondo economico, con l’obiettivo di fornire una nuova opportunità a tutti quei soggetti imprenditoriali ai quali la dicotomia classica “profit/non profit” sta decisamente stretta.
La vera forza del modello delle Società Benefit sta però nella decisione di non provare a creare un terzo campo d’azione, alternativo ai due “classici”, da ricavare sgomitando e facendosi largo negli altri due, bensì permettere ad aziende profit di sconfinare in maniera virtuosa e positiva in un campo nel quale solitamente non hanno spazio alcuno. Le Società Benefit sono saldamente ancorate alla produzione e ridistribuzione di utili, ma l’individuazione di obiettivi diversi – che vanno obbligatoriamente messi sullo stesso piano e simultaneamente perseguiti – le rende di fatto società atipiche che come tali vengono riconosciute appositamente. Estremizzando il modello, sono società che producono profitti per sostenere i costi dell’impegno per il beneficio comune: l’attività economica diventa (o torna?) necessaria per lo sviluppo di tutta la società, e non di singoli soggetti. Non è un caso che molti imprenditori sono convinti che la domanda da porsi, tra qualche anno, non sarà più “Perché diventare una società benefit?”, ma “Perché non diventarlo?”.
Per ora si contano, in tutta Italia, circa 200 Società Benefit, ma il numero è in costante aumento. La sfida è lanciata.