Pane (in) Comune?

Dai buoni spesa al cibo come bene comune.

Alessandro Pirani
19 Ottobre 2020

Dai buoni spesa al cibo come bene comune.

[sintesi del rapporto provvisorio di ricerca svolto insieme a Riccardo Crosara e a Andrea Giua consultabile qui]

“Il coronavirus è stato talvolta chiamato un equalizzatore, perché ha infettato sia i ricchi che i poveri, ma quando si tratta di cibo, questa uguaglianza finisce. Sono le persone povere, compresi grandi segmenti delle nazioni più povere, che stanno soffrendo la fame e affrontano la prospettiva di morire di fame”. Nel lockdown dei poveri, come si dice, non siamo affatto sulla stessa barca, come ha affermato il Papa a Pasqua. La tempesta è la stessa, ma le barche sono molto diverse.

Per capire un po’ meglio cosa stesse succedendo, abbiamo avviato una conversazione alla scala globale, su twitter. In quello spazio di discussione e condivisione di pratiche in queste settimane c’è stato tempo per tracciare il dibattito, i contributi delle varie agenzie internazionali e i casi di risposta puntuale — misure nazionali, progetti dal basso e così via.

Mettiamo un titoletto ogni tanto

Ci sono già moltissimi contributi su come il problema si sta gestendo alla scala urbana, per due evidenti ordini di motivi: il primo, il virus è un problema urbano, che ha impattato sulle aree ad alta densità; il secondo, l’urbanizzazione ha determinato un aumento della concentrazione dei contagi nelle aree ad alta densità di popolazione, comprese quelle con minor capacità reddituale. Ovunque, si parla di come la città dovrà modificarsi per tornare a essere abitabile nella gestione della pandemia e di come le aree che sono state oggetto di spopolamento negli ultimi decenni potrebbero tornare a essere un utile bacino di ripopolamento e di re-insediamento di popolazioni urbane in fuga dall’isolamento sociale.

Assumendo quindi la rilevanza della scala metropolitana nella propagazione del contagio, abbiamo quindi osservato come si sta affrontando oggi l’attuazione dell’Ordinanza del Capo Dipartimento della Protezione Civile n. 658 dello scorso 29 marzo 2020 (qui è possibile consultare il draft dell’articolo). Il provvedimento, ravvisa (art. 1) “la necessità di incrementare il fondo di solidarietà comunale per la necessità di supportare i Comuni interessati dall’emergenza epidemiologica da virus COVID-19”, definendone il riparto in una prima quota, pari all’80% del totale, in proporzione alla popolazione residente di ciascun Comune e in una seconda, pari al restante 20%, in base “alla distanza tra il valore del reddito pro capite di ciascun Comune e il valore medio nazionale”.

Abbiamo compilato una prima base di dati con le diverse interpretazioni amministrative del provvedimento, nell’ottica di formulare alcune indicazioni di policy su come immaginare, da subito, un Piano Nazionale per il diritto al cibo. Un Piano concreto che vada oltre alle mere enunciazioni di principio che un giorno sì e l’altro pure invocano necessari quanto non sufficienti inserimenti ‘del diritto al cibo tra i diritti garantiti in Costituzione’.

400 milioni di euro in totale è la cifra stanziata dal governo con DPCM del Dipartimento della Protezione Civile. Una cifra a prima vista ridicola. A prima vista, data la difficile stima della possibile platea dei beneficiari. Ogni Comune ha un’idea abbastanza precisa di quante persone hanno in carico i propri servizi sociali; nell’intendimento governativo l’idea è stata, però, di alleviare la condizione di indigenza ‘intervenuta’ (e non già presente) a seguito del lockdown, senza che le misure si andassero a sommare a quelle già in essere. Ecco, di questa platea ‘emergente’ di poveri è difficile avere una quantificazione anche solo approssimativa.

Il dibattito sulle misure di contrasto alla povertà è stato a lungo in Agenda negli ultimi anni: le misure come il ‘reddito di cittadinanza’, la più rilevante implementata in Italia pur con tutti i suoi chiaroscuri, intendono dare una risposta strutturale a quella fascia di popolazione “che si trova sotto la soglia della povertà assoluta, che ha a disposizione meno di 780 euro al mese” (secondo definizione ISTAT). Con la misura dei buoni spesa, così come nel contributo per i mancati guadagni (presunti) degli ‘autonomi’ (i 600 euro) ci troviamo dunque in un ambito emergenziale che si rivolge a una popolazione imprecisata: ‘emergente’, quindi, nella duplice accezione di ‘emergenza’ e ‘emersione’; una misura all’interno di quella categoria di misure economiche di contrasto alla povertà, di ‘ultima istanza’, ma senza alcuna prospettiva di farsi strutturale. In Italia ‘l’intervento pubblico sulla fame’ è stato inserito all’interno di due traiettorie: le politiche sociali di contrasto alle povertà estreme e la fornitura diretta di alimentari ai destinatari delle misure di sostegno. Lo strumento utilizzato tra il 2014 e il 2020 è il Fondo per la distribuzione delle derrate alimentari agli indigenti, gestito dall’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura. Nel corso di questa crisi, il Fondo è stato oggetto di un incremento di 50 milioni di euro all’interno del decreto-legge n. 18 del 2020 (il c.d. “Cura italia”).

Tuttavia, mentre il virus ha modificato e ri-plasmato giorno dopo giorno i cosiddetti ‘bisognosi di aiuto’, il Fondo pare aver ignorato tale dinamica sociale, mantenendo invariata la platea di beneficiari, intendendoli sempre come “coloro che si trovano in condizioni di estrema povertà”. L’analisi dei numeri relativi alle domande presentate nei Comuni capoluogo delle Città Metropolitane per l’accesso ai buoni spesa mostrano, per quanto ancora imparziali e relativi alla totalità delle domande in attesa di controlli di regolarità, l’insufficienza dello stanziamento disposto dall’Ordinanza e la profonda criticità economica che sarà necessario fronteggiare nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. A Genova, ad esempio, le domande valide sono state 18.500 a fronte di una platea stimata (e servibile) di 12.500 nuclei familiari: per dare un’idea del preoccupante stato di disagio economico, le domande pervenute sono state oltre 23.500. Anche a Bologna, dove lo stanziamento statale è addirittura integrato da fondi comunali, le domande pervenute sono comunque quasi il doppio della quantità stimata da soddisfare.

I dati di alcuni Comuni sono ancora provvisori e difficili da commentare, in quanto è prevista la riapertura dei bandi, ma tutti suggeriscono un elevato afflusso di domande. Una prima questione sta riguardando l’individuazione dei beneficiari, figura apparentemente definita, stando ai principi dell’Ordinanza, ma altrettanto ambigua, se guardiamo alle sue interpretazioni e successive applicazioni a livello locale. Un secondo aspetto che ha generato divergenze interpretative a livello locale ha riguardato il concetto di priorità. L’Ordinanza parla infatti di priorità di intervento verso “coloro che non sono già percettori di sussidi pubblici”. Tuttavia, questo criterio è stato interpretato in modo sia inclusivo che esclusivo. In altre parole, l’essere percettore di “forme di sussidio pubblico” è stato letto da alcuni Comuni come un vero e proprio criterio di esclusione all’accesso al buono spesa, mentre altri Comuni lo hanno utilizzato come un criterio per stabilire un ordine di spettanza dei contributi, ovvero prima a chi non percepisce forme di sussidio e solo dopo, in caso di esaurimento della categoria precedente, anche a chi percepisce questi sussidi. Il terzo elemento di ambiguità nel comma dell’Ordinanza è proprio quello di “sostegno pubblico”. Che cosa rientra all’interno del sostegno pubblico? Il reddito di cittadinanza è da considerarsi una forma di sostegno pubblico più ‘forte’ del “reddito di emergenza”? Anche in questo caso, Amministrazioni diverse hanno dato interpretazioni diverse.

L’analisi della gestione del contributo governativo rappresenta solo una proxy per valutare il grado di preparedness del Paese nell’affrontare crisi di scala globale i cui effetti impattano alla scala locale. È evidente che gli stili di gestione dei ‘buoni spesa’ possono essere un primo punto di attacco per comprendere di quali strumenti dovrebbero dotarsi le città e i territori per iniziare a considerare il cibo come un diritto e non come mera commodity, un tema cioè che non deve essere oggetto di politiche perché di pertinenza esclusiva del mercato.

Esiste, infatti, un tabù ben radicato che porta a escludere la possibilità che il cibo sia un diritto umano e che possa essere oggetto di politiche non confinate nello stretto recinto degli aiuti di ultima istanza per ‘i meno abbienti’, ma che riguardino al contrario tutta la popolazione, in chiave redistributiva, educativa, ambientale.

Dall’analisi latitudinale svolta sui pattern amministrativi messi in campo dai Comuni più importanti del Paese emerge un quadro diversificato in cui il sapere burocratico, interagendo con routine organizzative peculiari produce schemi d’azione influenzati da visioni politiche e ‘locali’ che impattano sulle definizioni di ‘diritti fondamentali’ che vengono agite. L’analisi comparata dei trattamenti che è possibile esigere nei diversi contesti è utile ad avere un’idea di quale modello di uguaglianza viene praticato in Italia oggi.

Non è che un inizio. Se tutto questo dev’essere funzionale a costruire una policy nazionale del cibo (nel Paese del mangiar bene manca del tutto una cultura in questo senso), serve come prima cosa cambiare la narrativa egemone con cui questo tema viene concepito, adottandone una che veda il cibo come bene comune.

Sotto il profilo degli strumenti di governo, occorre mettere mano a un disegno efficace di governance di area vasta delle politiche alimentari che interagisca con una definizione aggiornata di livelli essenziali e cibo e, soprattutto, con schemi di procurement in grado di sostenere l’interesse collettivo e gli ecosistemi locali con investimenti decisi sulle filiere corte, in un’ottica di politica alimentare che educando e sensibilizzando le nuove generazioni aiuti a pensare il cibo come bene comune.

Andiamo!

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